
Opere di Alessandro Vascotto, Studio d‘arte di Adriana Itri
Sirene.
Presentazione della mostra, a cura di BARBARA CECCHINI
Creature ammaliatrici e terrificanti al tempo stesso, raffigurate nell’epoca classica come donne-uccello, dal volto femminile e corpo di rapace, mutano sembianze in seguito all’incontro con la mitologia nordica, divenendo prosperosi e avvenenti esseri metà donna metà pesce. L’elemento da cui provengono resta ambiguo, così come ambigui sono la loro indole e il loro duplice aspetto.
Il mito narrato da Omero nell’Odissea le vuole femmine affascinanti che, con voci suadenti, incantano i naviganti per poi condurli al naufragio.
Delle diverse origini del mito, mi piace ricordare quella in cui si narra della lotta che Acheloo, tramutatosi in bue, ingaggiò con Eracle e di come quest’ultimo, strappando al primo un corno, gli procurò una ferita dalla quale uscirono tre gocce di sangue, da ogni goccia nacque una sirena.
Il fascino antropomorfo del mito trova nelle sirene un soggetto ideale ma le sirene qui trattate non vogliono ammaliare, piuttosto raccontare: un susseguirsi di tensioni interne, inquietudini che trovano spazio/corpo sul foglio, deformano elementi umani inventando figure e lasciano lo spettatore libero di meravigliarsi dell’inaspettato nel conosciuto. Un tratto veloce, a momenti nervoso, poi morbido, rotondo. L’opera diviene lo spazio sul quale la parola scritta perde il senso primario di significato per assumere il suo contraltare di significante: traccia psichica che prende forma. Il simbolismo della parola ritrova l’aspetto pre-simbolico della corporeità.
Sono i lavori di Alessandro Vascotto.
Le sirene rappresentate nelle opere dell’autore, non vogliono cedere all’ascolto di Sé: vogliono dire, addirittura urlare ma non sentire. È un grido silenzioso. Un urlo muto che non vuole sedurre ma raccontare il dramma esistenziale dell’essere “gettati nel mondo”. Le sirene come filtro attraverso cui l’incomunicabilità del dolore intimo trova una forma-espressione, nella quale è possibile riconoscere i temi e le ferite dell’universale esistere: paura, rabbia, ossessione, solitudine.
Mi piace pensare al mito delle sirene come ad una narrazione che riguarda l’Incontro: con luoghi altri, con esistenze altre, così come descritto nei poemi omerici ma anche con le proprie Alterità. L’incontro dell’Uomo con le proprie parti mancanti, sconosciute e, in quanto tali, temute. Ulisse incontra mondi lontani ma soprattutto incontra se stesso, si scopre. Non è forse questo il fine delle sirene? Incontrare. Che poi questo incontro conduca alla morte è secondario: prima bisogna giungere, raggiungere.
La consapevolezza di sé come essere autonomo, necessita del riconoscimento dell’esistenza di “Altro da Sé”. Il processo di individuazione si compie attraverso il confrontarsi ma l’incontro può anche richiamare il sentore della primigenia indifferenziazione, dando respiro alla paura atavica di perdersi, in quella vicinanza profonda dove Io e Tu si fondono: il timore di abbandonarsi che richiama l’ambivalente sentimento, volere/non volere, esperito di fronte alla dipendenza e in ultimo, al fantasma di un ritorno all’unità totalizzante, simbiotica.
Lo sgomento di perdersi abita anche luoghi più intimi, privati; nella paura di arrivare a non riconoscersi: “Posso guardare così tanto dentro di me senza temere di scoprire ciò che non sapevo esistere in me? posso incontrare il mio Io profondo e sperare di conoscerlo? di riconoscermi? e se così non fosse, se il mio sguardo cogliesse alterità/mostri della cui esistenza non sapevo?”.
È forse questo che le sirene tratteggiate dall’artista, con i loro volti trascesi in un grido e le orecchie tappate sembrano non voler fare, incontrare: “Non voglio! Non voglio! Non voglio sapere! Non voglio sentire! Non voglio vedere!”. Il loro grido sgomento di fronte alla propria Alterità.
Se l’Umanità è nel volto, non c’è nulla di umano nelle sirene qui raffigurate: solo un grido disumano di dolore.
Nelle forme abbondanti e sinuose, le donne-pesce delineate nei lavori di Vascotto, ricordano la rappresentazione romantica nord europea ma l’indole al “rapimento” sembra essere assai più vicina alle Arpie descritte nelle Argonautiche di Apollonio Rodio. Le bocche spalancate lasciano immaginare un suono acuto, stridulo, più vicino alla freddezza di un grido che alla melodia di un canto. I volti piatti, trasfigurati nello spasmo di un urlo che non vuole finire, le dita ad artiglio; creature che non ammaliano, piuttosto rapiscono: i corpi, ma soprattutto l’anima.
Letali e minacciose, il loro ruolo è trattenere, imprigionare il cuore e la mente. Identità non riconosciute e confuse nei loro tratti distintivi. L’incontro tra l’elemento maschile, che gioca a rubare spazio ad una femminilità procacemente mostrata, si manifesta in “luoghi” inaspettati: le dita di un piede che si torcono, un busto femmineo dal quale emerge la durezza del costato, bicipiti asciutti e vigorosi.
Sulla tela vediamo emergere dagli abissi l’elemento umano, ma di una umanità disumanizzata: come in preda a un artificio malefico, ghiacciato in una espressività del volto che richiama allo stesso tempo presenza e assenza. Una sensazione di ambivalente esserci non esserci si rivela nelle dita della sirena bicefalo che sembrano fondersi nel cranio dell’uomo emerso/immerso, senza lasciar intuire se sia l’umano a dare vita al disumano o viceversa.
Questa ultima grande tela lascia aperta una domanda: qual è la paura, il dolore da cui le sirene dell’autore vogliono affrancarsi?
Quella dell’ignoto al di fuori di sé o piuttosto della consapevolezza dell’ignoto dentro di sé, dello sconosciuto, della perdita, dell’oblio?
Nell’origine stessa del mito troviamo il corno strappato che riconduce al dolore, alla ferita, alla perdita e l’elemento che più di ogni altro richiama la vita: il sangue
Da tre gocce di sangue nascono le Sirene: dolore, perdita, vita.
Informazioni
Studio d‘arte di Adriana Itri – Via San Giusto 6 – Trieste 19/5 – 18/06/2018
Inaugurazione: 18/05/2018 alle 18.30
Alessandro Vascotto – tel. 360807418
Adriana Itri – tel. 3286953948